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La natura umana

di Claudio Monnini


Questa volta voglio parlare di una percezione che fa la differenza nello stare al mondo, e quindi non di piccoli gesti, ma del portato strategico per la nostra sopravvivenza, individuale e di specie, di una sola, fondamentale, percezione.


A partire dalla scuola e dalla prima infanzia molti di noi hanno ricevuto un’educazione in cui si parla dell’uomo e della natura come di due entità separate, se non addirittura contrapposte. Credo che all’origine delle molte percezioni sbagliate delle persone, e degli errori platealmente goffi che facciamo nel rapportarci all’ambiente naturale, di fatto distruggendolo irreversibilmente, ci sia questo insegnamento.


Noi non siamo NELLA natura: noi siamo LA natura: parte della sua meravigliosa complessità. Il difetto di percezione, o pregiudizio, della prima impostazione, ci rende inadeguati all’ascolto del mondo che ci circonda e di noi stessi, nell’illusione che il mondo debba essere addomesticato a uso e consumo di un extraterrestre: l’uomo.



Ahimé, come dimostra uno studio pubblicato su Nature dal gruppo dell’Istituto israeliano Weizmann per le Scienze coordinato dal biologo Ron Milo, l’evento più preoccupante del 2020, a livello planetario non è stata la pandemia, ma il fatto che, per la prima volta nella storia del pianeta Terra, tutta la massa artificiale prodotta dall’homo sapiens (una specie che ha solo 300.000 anni) ha superato in peso tutta la biomassa vivente del pianeta (compreso il peso dell’homo sapiens).

“Ci siamo impegnati molto per questo risultato”, rileva Stefano Mancuso, “sia producendo materiali artificiali, sia distruggendo gli habitat naturali”.


In soli 40 anni, dal 1971 al 2014, abbiamo fatto estinguere il 60% delle specie animali selvatiche del pianeta.



Non solo, ci accaniamo a ritenere pericoloso e dannoso tutto ciò che è visibilmente “naturale” e benefico tutto ciò che è visibilmente antropizzato. Il pericolo percepito è spesso cosa diversa da quello reale, e rischiamo di allarmarci per le cose sbagliate.

Un recente caso è l’aggressione fatale di un’orsa coi cuccioli a un jogger che si è avventurato a correre nel posto sbagliato e nella stagione sbagliata, ignorando purtroppo gli avvertimenti affissi all’inizio del sentiero, tra i quali quello di non correre.




Nonostante, per un fatto statistico, l’ambiente naturale, poco abitato, sia meno pericoloso di quello urbano, lo percepiamo come più pericoloso. Per alcuni poi è sfidante e, ignorando che non è un parco divertimenti, vi praticano attività che non sono idonee, o sagge, in quei luoghi e in certi periodi dell’anno. Ad esempio non è mai consigliabile correre davanti a un grande predatore, e nemmeno avventurarsi tra grandi predatori nel periodo in cui svezzano i cuccioli, non è saggio esporre contenitori accessibili di rifiuti fuori dalle villette in una zona limitrofa al territorio degli animali selvatici, perché ce li portiamo in casa, come non è opportuno prendere il sole sulla spiaggia dove e quando le tartarughe vanno a deporre le uova, o fare sci alpino in neve fresca a primavera, col rischio di procurare una valanga che ci travolgerà.


Molte altre cose rischiose le facciamo invece quotidianamente, magari in ambiente urbano, e sono anche più sfidanti e più fatali, ma non lo percepiamo, perché queste azioni sono parte dell’esperienza quotidiana in città, e questo fatto abbassa la percezione del pericolo.




Non siamo infatti spaventati da ciò che conosciamo bene, anche se pericolosissimo, ma da ciò che non sappiamo prevedere .

Sento spesso mamme chiamare il proprio Comune invocando l'abbattimento di alberi "pericolosi" che incombono sui parchi giochi. “A memoria d'uomo un albero non ha mai ucciso un bimbo in un parco giochi”, rileva lo specialista agronomo Giovanni Morelli “mentre le automobili ogni giorno ne investono, e a nessuno è passato per la mente di recintare i marciapiedi”. Se si conoscono gli alberi si riconosce il ramo che l'albero ha deciso di lasciare cadere, con largo anticipo, e si elimina solo il ramo.


Quello che invece è davvero pericoloso è ridurre la biodiversità del pianeta, bisogna essere consapevoli che, oltre alla responsabilità etica di questo comportamento della nostra specie, non possiamo sopravvivere in un mondo artificiale: gli insetti impollinatori, da soli, vittime di campagne di disinfestazione massive dell’agrochimica, sono alla base della riproduzione di tutti i vegetali che mangiamo: senza i fastidiosi insetti moriremmo di fame, altro che farina di grillo.



Qual è allora la cosa giusta da fare, posto che nessuna azione di nessuna specie è priva di impatto sul sistema globale del mondo vivente (e non)?

Bisogna riconoscere con umiltà che la nostra specie, per quanto abbia sviluppato tecnologie più di ogni altra, è una specie giovane; le piante, come rileva sempre Mancuso, sono da mezzo miliardo di anni delle manipolatrici del povero mondo animale che le abita (loro sono il 99% delle biomassa e tutti gli animali noi compresi solo il 3 per mille), in pratica noi animali, rispetto al mondo vegetale a livello planetario, siamo un po’ come i pidocchi su un albero.


Umiltà e ascolto: guardare con passione, e non con diffidenza, quello che ci succede in questo straordinario pianeta, perché la natura umana è proprio la curiosità.






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